Marco Polo, una crociata nata male e gli ultras più particolari di Turchia.

“Leone di Venezia, leone di San Marco, l’arma cristiana è al varco dell’oriente, dai porti di ponente il mare ti ha portato i carichi di avorio e di broccato […] Leone di San Marco, leone del profeta, ad est di Creta corre il tuo Vangelo, si staglia contro il cielo il tuo simbolo strano, la spada, e non il libro, hai nella mano […] Terra di meraviglie, terra di grazie e mali, di mitici animali da bestiari, arriva dai santuari fin sopra all’alta plancia, il fumo della ganja e dell’incenso. E quel profumo intenso, è rotta di gabbiani, segno di vani simboli divini, e gli uccelli marini additano col volo la strada del Catai per Marco Polo”.

Seduto al tavolino di un caffè nei giardini sotto palazzo Topkapı sorseggio un tè, il primo di una lunghissima serie. È caldo, nero e zuccheratissimo. Preferirei una birra ma per quella meglio aspettare la sera. Il vento spira gelido dal Mar Nero agitando le acque del Bosforo ma c’è il sole. Sono arrivato da poche ore ma già sento la potenza del luogo. Dalla tasca un lettore MP3 suona “Asia” di Guccini e dall’Asia mi separano ormai solo poche centinaia di metri. Penso a Marco Polo e, pur sapendo che il paragone è improprio, mi sento un po’ come lui. Certo, lui partì da Laiazzo, l’odierna Yumurtalık, nel golfo di Alessandretta (quella di Indiana Jones e l’ultima crociata) e in Cina ci andò a piedi mentre io ho il molto più prosaico obbiettivo di raggiungere l’Iran in treno e autobus ma ciò non toglie che per un veneziano è difficile, alla vigilia di un viaggio verso oriente, non pensare all’illustre concittadino. L’Iran non sarà la Cina ma all’epoca mi sembrava comunque un qualcosa di speciale. Ricordo bene quando, insieme al mio compagno di viaggio, decidemmo di intraprendere il cammino. Venezia era avvolta nella nebbia e noi, spritz alla mano, ci dicemmo che fosse una iattura che i talebani e gli americani ci avessero privato della possibilità di visitare l’Afghanistan. Il padre del mio amico era stato uno di quegli hippie che negli anni ’70, prima che la disgraziata invasione sovietica cambiasse per sempre il volto di quel paese, aveva raggiunto le spiagge di Goa seguendo l’itinerario del Magic Bus che, passando per Istanbul, Mashad, Kabul e Lahore portava orde di giovani capelloni a farsi chilum di ganja e spade di eroina nei vicoli di Kathmandu o nelle assolate coste dell’India. Il ricordo dell’Afghanistan non l’aveva mai abbandonato mentre a noi quel mondo era negato dal folle pretesto statunitense di esportare la democrazia a suon di bombe e da quello, ancor più inquietante, dei barbuti studenti coranici di riportare il loro sciagurato paese all’età d’oro dei compagni del profeta senza tener conto del fatto che nel frattempo erano arrivati l’illuminismo, la coca cola, i viaggi spaziali e la pressa da stampa. Quindi per noi non ci sarebbe stato nessun Afghanistan. Esisteva però il rischio che quello non sarebbe stato l’unico paese a venirci negato dalle esigenze della guerra all’asse del male. Erano passati solo pochi mesi da quando Bush figlio, accento texano e conoscenze geografiche di un bambino di quarta elementare, aveva annunciato che gli afghani non erano i soli a dover beneficiare dell’esportazione democratica. A loro si aggiungevano infatti gli iracheni, che già cominciavano a farsela nei pantaloni, gli improbabili nordcoreani e gli iraniani che, Bush probabilmente questo non lo sapeva o, peggio, fingeva di non saperlo, con Al-Qaeda e l’estremismo sunnita non avevano e non hanno niente a che fare.

«Andiamo in Iran prima che ci chiudano anche quello?»

La risposta era stata un sì convinto. Per decidere di partire a volte non serve altro.

E quindi eccomi a Istanbul, degna prima tappa di un viaggio verso est, con tanto tempo da perdere e una gran voglia di conoscere. Nei giorni successivi mi raggiunge una coppia di amici. Lui, Riccardo, lo conosco da sempre. È un fanatico della lettura e della storia, un dottore in archeologia e un viaggiatore di quelli che non amano sedersi sulla spiaggia ad aspettare il tramonto. Con loro ci diamo al turismo militante. Sveglia alle 6:30, colazione abbondante e pedalare. Cisterna della medusa, ippodromo, moschea blu, torre di Galata, castello genovese all’imbocco del mar nero, gran bazaar, moschea di Solimano, museo archeologico e quello, noiosetto, di arte islamica ad ammirare tappeti. A palazzo Topkapı visitiamo l’harem, osserviamo con malcelato scetticismo i peli della barba del profeta e osserviamo a braccia conserte la sala del Divan con la consapevolezza che tra quelle mura furono prese decisioni che per la nostra città avevano significato la guerra. Era il quartier generale del nemico, ora è un museo. Come molti dei monumenti di questa megalopoli sospesa tra due continenti un tempo erano altro. Nulla è statico a Istanbul, a partire proprio dal nome. I coloni megaresi che la fondarono sette secoli prima di Cristo la chiamarono Bisanzio in onore del loro re Byzas, rinominata Costantinopoli dai romani prese poi brevemente il nome di Nova Roma per poi tornare a essere Costantinopoli fino all’hannus horribilis (per i cristiani) 1453 quando i turchi la conquistarono rinominandola Kostantiniyye o Istanbul a seconda dei casi. Altri popoli la chiamarono a modo loro: Rūmiyya al-Kubrā o “La maggiore Roma” per gli arabi, Pây-i taht o “il piede del trono” per i persiani, Zarigrad o “città degli imperatori” per gli slavi e Mikligardur o “grande città” per i normanni. Nomi importanti per una città che è impossibile non considerare grande come suggerisce anche la lista di aggettivi accompagnati al sostantivo “città” tra i quali vale la pena annoverare regina, d’oro e millenaria.

Per secoli capitale di un impero greco e cristiano fu preda di una frenesia edilizia sorpassata solo da quella che nel Cinquecento avrebbe contagiato anche gli ottomani. Sulle sponde del Bosforo vennero edificate centinaia di chiese e decine di palazzi di cui oggi resta però solo un ricordo sbiadito. Di quella Costantinopoli restano infatti solo la chiesa di San Salvatore in Chora e la grande basilica di Santa Sofia entrambe trasformate in moschee una volta cambiato il regime. Visitarle, specialmente la seconda, regala emozioni. Il visitatore non può che restare ammutolito davanti alla grandezza con cui gli imperatori volevano rendere grazia al Salvator mundi che ancora oggi osserva i visitatori da dietro un orribile scudo di legno con incise sure del Corano. La basilica è l’esempio insuperato di architettura paleocristiana, grande al punto da far impallidire le pur sempre splendide chiese di Aquileia, Roma e Ravenna.

Oltre ai magnifici mosaici, alla poderosa cupola e alle maestose porte la basilica è anche luogo di sepoltura di imperatori e sultani ma, per un veneziano, la tomba più evocativa è anche la più semplice, anonima e nascosta. Per trovarla bisogna salire alla galleria del matroneo dove, su una pietra posta sul pavimento, sono scritte le sole parole Henricus Dandolo. Nessuno sa se la tomba sia vera o se si tratti di un falso né se sia vera la leggenda che vorrebbe che, dopo la conquista ottomana, i turchi l’aprirono e diedero le ossa in pasto ai cani ma in fondo non ha importanza. Quello che ci interessa è la storia che quella sepoltura racconta, una storia di opportunità e conquista, di avidità e coraggio, di vittoria e di disfatta.

Tutto ebbe inizio al tramonto del dodicesimo secolo quando papa Innocenzo decise fosse giunto il momento di lavare l’onta del campo di Hattin, dove il Saladino aveva sbaragliato i crociati, e di rilanciare la sfida ai musulmani che occupavano la Terra Santa. La chiamata venne ignorata dai sovrani di Francia e Inghilterra all’epoca troppo occupati a farsi la guerra tra loro ma il papa, uomo di grande carattere, non rinunciò all’idea. Assoldati i migliori predicatori di Cluny si rivolse direttamente ai baroni di Champagne, Fiandra e Monferrato che, inginocchiatisi, ricevettero l’assoluzione e presero la croce. Innocenzo aveva finalmente il suo esercito, quello che però ancora mancava era un modo di trasportarlo in Palestina. Scartata l’ipotesi di recarcisi via terra, considerata giustamente troppo perigliosa, il pontefice suggerì ai crociati di richiedere i servizi del più grande tra i popoli marinari. I veneziani.

Una delegazione crociata, capitanata da Goffredo di Villehardouin che scriverà poi una cronaca dell’impresa, si recò a Venezia per un’udienza al cospetto del consiglio e del Doge Enrico Dandolo un ultraottantenne cieco e dall’aspetto patito. Con soddisfazione reciproca venne concluso un accordo, Venezia avrebbe fornito una flotta per trasportare in Palestina i crociati in cambio di 85.000 marchi d’argento. Fin qui tutto bene. Il problema sorse l’anno successivo quando i crociati si presentarono in laguna in numero inferiore a quanto pattuito e senza abbastanza denaro per saldare il conto. Fu allora che emerse la vera indole del nostro Enrico Dandolo. Il doge era furioso. Venezia si era impegnata tutto per varare la flotta per trasportare i crociati e ora rischiava di trovarsi in rovina. La risposta fu spietata. L’intero contingente crociato venne scortato al Lido, all’epoca una lingua di sabbia malarica e disabitata, dove migliaia di soldati vennero tenuti in ostaggio per mesi in attesa che i loro signori trovassero abbastanza oro da ripagare il debito. Da quel momento in poi gli eventi precipitarono. Incapaci di trovare una soluzione onorevole i baroni di Francia furono costretti ad accettare un compromesso offerto dal doge: i veneziani si sarebbero uniti all’esercito crociato in cambio della metà dei profitti della conquista e i crociati, per saldare il debito, avrebbero aiutato i veneziani a riconquistare la città dalmata ribelle di Zara. Tutti felici sembrerebbe. Tutti tranne papa Innocenzo che aveva indetto la crociata per strappare Gerusalemme agli infedeli e non per aiutare una città cattolica a conquistarne un’altra.

I crociati, pur divisi al loro interno, tennero fede al giuramento e aiutarono i veneziani a domare Zara dove si fermarono a svernare. A quel punto la questione si sarebbe potuta definire risolta e la spedizione avrebbe potuto proseguire verso la Palestina se non fosse stato per un nuovo personaggio la cui comparsa riuscì ad accendere i desideri di vendetta che il doge e il marchese del Monferrato covavano nei confronti non dei musulmani di Palestina ma dei greci di Costantinopoli. Bonifacio del Monferrato ce l’aveva con i bizantini per una questione di promesse non mantenute e di onore offeso mentre le ragioni del doge erano ancor più profonde. Vent’anni prima infatti i veneziani, che a Costantinopoli la facevano da padroni controllando intere zone della città, avevano dato alle fiamme il quartiere dei loro concorrenti genovesi. Il Basileus aveva risposto facendo arrestare, nel corso di una sola notte, tutti i veneziani residenti nell’impero e li aveva rilasciati solo mesi dopo e in seguito al pagamento di un salatissimo riscatto. La leggenda vuole che durante quei mesi Dandolo, aggredito a bastonate dagli sgherri dell’imperatore, avesse riportato la ferita alla quale si doveva la sua cecità. Che questo sia vero o meno poco importa. Quel che è certo è che quando il giovane pretendente al trono di Bisanzio, Alessio Angelo, fuggito dalla prigionia in cui l’aveva costretto lo zio imperatore, si presentò ai crociati proponendo loro mari e monti perché lo aiutassero a riconquistare il trono questi accettarono con gioia. E così una spedizione che si proponeva di strappare la Terra Santa ai musulmani finì per muovere guerra all’impero cristiano per eccellenza e a vincerla. L’impresa ebbe del miracoloso. I crociati erano pochi ma determinati i bizantini tanti ma litigiosi e imbelli. Il risultato fu il saccheggio di Costantinopoli e la morte dell’impero. Una storia feroce e affascinante quella del primo sacco della Regina delle città per la quale rimando chi fosse interessato alla lettura del libro.

In attesa del visto iraniano e dell’arrivo del mio amico sperimento la cucina turca. Carne come se piovesse, cozze crude con una spruzzata di limone e salmonella e panini col pesce accompagnati all’ayran, uno yogurt liquido e salato. Una sera, grazie ai genitori dei miei amici che per qualche giorno si erano uniti alla compagnia, ho anche l’occasione di cenare in un ristorante di lusso dove viene replicata la cena offerta secoli addietro per la cerimonia della circoncisione dell’erede al trono ottomano. Sapori elaborati, un misto di dolce e salato che sorprende il mio palato italiano abituato a tenere i due gusti ben separati.

Rimasto solo dopo la partenza dei miei conterranei comincio a frequentare un internet caffè dove faccio amicizia con i giovani gestori, tutti ultras del Beşiktaş, una delle tre grandi squadre di Istanbul. Con loro esco la sera in locali dove si beve e si balla e dove le ragazze si dimostrano disinibite quanto quelle delle nostre parti e, cosa che mi fece assai piacere, vado a vedere un paio di partite all’İnönü, il grande stadio poco lontano dalle sponde del Bosforo. Il calcio mi piace e da sempre avevo simpatia per il Beşiktaş e certo non a causa dei colori sociali (il bianconero lo lascio ad altri) ma per via dei Çarşı, gli ultras più particolari di tutta la Turchia.

“Çarşı non è solo un gruppo riunito a Kapalı…,

Çarşı è chiunque ami il Beşiktaş.

Çarşı è un murales disegnato su un treno della metropolitana di New York,

una citazione su un muro di Praga,

amore scritto su una collina di Erzincan,

un dipinto bianco e nero sul muro di un’associazione di Adana,

un simbolo del Çarşı Ulan su un muro del liceo Galatasaray.”

I Çarşı sono tutto questo e molto molto di più. Nati all’inizio degli anni ottanta prendono il nome da una zona del quartiere di Beşiktaş e sono gli antagonisti turchi per eccellenza. A vedere i loro simboli e striscioni verrebbe da definirli anarchici ma io credo sarebbe più giusto chiamarli libertari, tolleranti e focosi. La politica centra poco, quello che conta è come vivono il calcio: con passione, allo stadio e nelle strade rifiutando la pay-tv e il merchandising ufficiale sia esso firmato Nike o Adidas.

Nella gloriosa curva Kapalı, appena si sparge la voce della presenza di uno straniero, si forma una lunga fila. Strette di mano, baci su entrambe le guance, pacche sulle spalle, un paio di canne, una bottiglia di birra.

Ci torno tre volte e da allora mi son sempre sentito uno di loro.

“Siamo le voci ribelle delle gradinate, noi siamo Çarşı”.

Il soggiorno dura in tutto tre settimane poi arriva il mio amico e, visto iraniano appiccicato al passaporto, prendiamo il primo dei molti autobus notturni di quel viaggio. Destinazione Cappadocia.