ANATOLIA

DONNE AD HARRAN

ANATOLIA Marco Crasso a Carre e un genocidio negato

Ci arriviamo dopo una notte di autobus. La città ha il colore della terra che la circonda e del cielo dell’inverno anatolico, il colore della sabbia e del vento. La stazione è caotica, come nel miglior stile mediorientale anche se forse più che di oriente sarebbe giusto parlare di Mesopotamia. L’Eufrate, fiume il cui nome ha una potenza evocativa da non sottovalutare, dista solo qualche decina di chilometri. Difficile per il viaggiatore rendersi conto, tra la polvere dei bazaar e gli scarichi delle automobili, di trovarsi nel cuore della mezzaluna fertile. Urfa non è la culla dell’umanità, quel titolo spetta a oscure regioni africane della valle dei rift, ma, se non è la culla almeno ne è il seggiolone. Proprio in questa regione l’uomo ha infatti dato vita, volontariamente o meno spetta ai paleoantropologi dirlo, a una rivoluzione che avrebbe cambiato il volto non solo dell’uomo ma dell’intero pianeta. Questa rivoluzione riguardava il modo in cui gli umani espletavano una delle loro più basilare funzioni: mangiare. Circa 12.000 anni fa uomini di questa regione cominciarono infatti a modificare il proprio stile di vita. Piccoli gruppi dediti alla caccia e alla raccolta decisero di fermarsi e di dedicare le proprie energie alla coltivazione di una pianta. Il frumento. È difficile per l’uomo d’oggi, giustamente abituato a mangiare pane e pasta, rendersi pienamente conto della portata di questo cambiamento ma è fuori dubbio che le implicazioni di quella scelta ebbero una portata epocale. Il frumento si rivelò essere un marito esigente, quasi tirannico. Allo scopo di prendersene cura l’umanità fece qualcosa che mai aveva fatto in precedenza. Si fermò e cominciò, lentamente ma con costanza, a modificare l’ambiente per soddisfare le esigenze della pianta-padrona. Terre vennero dissodate per permettere ai semi di attecchire con maggiore facilità, canali vennero scavati per placarne la sete e, udite udite, edifici vennero eretti per preservare i preziosi raccolti. Il frumento divenne l’orizzonte dell’umanità e per servirlo gli uomini edificarono i primi villaggi e le prime città. Se questo cambiamento sia stato positivo o meno per l’umanità è discutibile. In termini darwinistici di certo lo fu. Se il successo di una specie si basa sui numeri, cioè sulla sua capacità di riprodursi, la rivoluzione agricola del 10.000 a.C. rappresenta un successo pari se non superiore a quello della rivoluzione industriale. Gli uomini, da poche migliaia divennero milioni. Se poi persero la loro ancestrale libertà e le loro condizioni di vita divennero più grame, se si diffusero malattie prima di allora sconosciute e si svilupparono sistemi tirannici difficilmente ripetibili in società basate sulla conoscenza diretta tra gli individui, in termini di evoluzione è irrilevante e, in fondo, non è quel che interessa al viaggiatore. Al viaggiatore interessa il passato ma solo nella dimensione del presente, quindi le sue vestigia e il loro potere di evocare sensazioni ed emozioni. Mi venne quindi spontaneo chiedermi che cosa restasse di quel passato nella Salinurfa di oggi. Il nome no di certo. La città è antica, 11,000 anni o giù di lì, 8,000 più di Roma, 6,000 più di Gerusalemme e Varanasi, 10,000 più di Venezia. Se New York è un neonato, Venezia ha da poco messo i denti, Gerusalemme sta imparando a leggere e scrivere e Roma ha il volto coperto di acne giovanile, Salinurfa è ormai una vecchia grinzosa ma se sia saggia o meno resta da dimostrare.

Come molte città in questa parte del mondo che da sempre è stata una zona di passaggio, un ponte proteso a connettere l’Europa e l’Africa con l’Asia profonda, le città, quasi senza eccezione hanno cambiato spesso di nome. Non sappiamo come la chiamassero i suoi fondatori e probabilmente non lo sapremo mai, quel che è certo è che molti popoli da sussidiario la conobbero o, per periodi più o meno lunghi, la fecero loro. Di qui passarono Sumeri, Accadi, Hittiti, Assiri, Medi, Persiani, Greci, Armeni, Romani, Bizantini, Arabi e, infine, Turchi. Ognuno le diede un nome diverso. Fu chiamata Antiochia di Callirhoe, Justinopolis, al-Ruha, Riha, Urha ma, tra tutti, quello che suonerà più familiare agli europei è Edessa. Centro di un regno crociati dalla vita breve e tormentata è passata poi ai turchi che, dopo aver giustiziato tutti i latini ancora presenti in città, permisero ai cristiani orientali di continuare a viverci. La multietnicità di Urfa ebbe fine, come d’altronde successe a tutte le altre città della moderna Turchia, con il genocidio del 1915 quando gli oltre 8.000 armeni della città vennero massacrati lasciando in eredità alla neonata repubblica kemalista una Urfa etnicamente ripulita e dominata dalla componente turca. O almeno così si potrebbe credere se si volesse accettare l’idea che i curdi altro non siano che “turchi delle montagne” come ama chiamarli la propaganda nazionalista.

Al nostro arrivo alla stazione veniamo avvicinati da un signore di mezza età che, per evitargli problemi, chiamerò Ahmet. Ci propone di andare, invece che in albergo, a casa sua. Accettiamo.

Ahmet si fa pagare il giusto ma si tratta di denaro ben speso. Non che la casa sia un granché ma non si viaggia per avere letti comodi o una colf che ti cambia le lenzuola. Si viaggia per imparare, specialmente in questa parte del mondo dove i costumi castigati lasciano poco spazio al piacere. Ahmet è curdo e non ne fa mistero. Sostenitore del PKK, il partito dei lavoratori curdi di ispirazione socialista, ci porta a visitare la sede del suo braccio politico legale, il DTP poi sciolto nel 2009 da tribunali asserviti al volere del sultano Erdogan. Sulle pareti ricoperte da pannelli di legno dal sapore vetusto campeggiano le foto dei martiri. Sono giovani baffuti, vecchi dall’aria fiera e donne vestite con camicie a fiori. I militanti sono cordiali ma non si sbilanciano. Se c’è una cosa che i curdi imparano presto è la circospezione se non addirittura la paura. Silenzio! Il nemico t’ascolta dicevano i manifesti della seconda guerra mondiale, assioma ancora valido in questa città come sospesa tra il desiderio d’indipendenza e quello della tranquillità. Fuori, nella grande piazza, quando scende la sera viene imposto il coprifuoco e le strade sono pattugliate dai carri armati con la mezzaluna mentre, sulla sommità dell’antica fortezza, una bandiera enorme, la più grande che avessi visto fino ad allora, ricorda ai curdi che Ankara vigila.

A casa di Ahmet si parla di politica. Suo figlio sfoggia, ancora non so se con orgoglio o vergogna, la bruciatura della lama di un coltello a rigargli la guancia. Si limita a dire che si tratta di un regalino della polizia turca. Non insistiamo con le domande. Il ricordo è doloroso e lui non lo nasconde. Stanco di sogni Ahmet parla di sua moglie che, come molte altre donne intraviste in questo viaggio, non parla l’inglese ma, anche lo parlasse non si permetterebbe mai di intromettersi nella conversazione. Deve aver avuto una vita dura, a vederla sembra di vent’anni più vecchia del marito, il volto tatuato con simboli tribali, il capo coperto dal velo. Non parla ma cucina bene anche se poi la cena la consumerà da sola, in un’altra stanza.

A Urfa non ci fermiamo a lungo. Giusto il tempo della visita al bazaar e alla moschea di Halil-ur-Rahman che ospita la cosiddetta piscina del sacro pesce dove, secondo alcune interpretazioni dell’Antico testamento Nimrod gettò Abramo nel fuoco.  Un giorno in più lo dedichiamo a una gita fuori porta. All’epoca il sito neolitico di Göbekli Tepe, considerato il primo esempio di architettura religiosa della storia, non era ancora aperto al pubblico quindi ci dirigiamo verso sud e il confine siriano per visitare il villaggio di Harran. Come Urfa anche Harran è antica quanto l’agricoltura ma, a differenza della città capoluogo, non sembra essere cambiata molto da allora. Su uno sfondo desertico appare un villaggio interamente murato all’interno del quale casette di sabbia a forma di alveare, molto simili ai trulli di Alberobello, ospitano alcune famiglie arabe vestite alla maniera beduina che sopravvivono con la pastorizia e con i pochi denari spesi dai turisti di passaggio.

La città è interessante non tanto per le sue architetture e i suoi costumi ma piuttosto perché riesce a dare al visitatore la sensazione di trovarsi su una frontiera culturale. A nord l’Anatolia a sud le selvagge sabbie d’Arabia. Quello che però davvero interessava a me era il suo significato storico. Questo non è il luogo per narrare gli 8.000 anni di storia di questo villaggio, mi concentrerò quindi su un singolo evento che, in un certo senso, riguarda da vicino noi latini.

Nell’anno 53 prima di Cristo il triumviro Marco Licinio Crasso, alla testa di 40.000 legionari, attraversò l’Eufrate per portare la guerra all’unico nemico che Roma non fosse mai riuscita a piegare. Il suo scopo era sottomettere l’impero persiano e i Parti che lo governavano spingendo così le frontiere di Roma fino a oltre l’altopiano iranico e guadagnarsi la gloria e, cosa forse per lui più importante, un bottino degno di colui che già era considerato l’uomo più ricco dell’Urbe.

Crasso era un uomo intelligente che aveva capito che più che la dignitas contavano i danarii o almeno che la prima senza i secondi serviva a ben poco. Le cariche si potevano sempre comprare e così lui aveva fatto. Quello che gli mancava era la gloria militare. Certo, aveva guidato l’esercito che aveva sconfitto la rivolta degli schiavi e crocifisso Spartaco sulla via di Capua ma una cosa era schiacciare qualche migliaio di gladiatori e servi ribelli, un’altra era portare la guerra nel cuore della Persia. La vittoria lo avrebbe reso l’uomo più celebre e potente di Roma ma, purtroppo per lui, i Parti avevano altri piani.

Così, un caldo mattino di inizio maggio, le legioni si trovarono davanti alle schiere d’oriente. Crasso, commettendo un errore, vista l’abbondanza di cavalieri tra i nemici schierò i suoi in quadrato ma i Parti non si fecero intimidire. Al barritus delle legioni i persiani risposero alzando stendardi colorati che risplendevano al sole in una maniera che a Crasso e i suoi deve esser parsa insolita. Si trattava della prima volta che i romani vedevano la seta ma non ebbero il tempo di meravigliarsene. Evitando cautamente lo scontro frontale i parti passarono l’intera mattinata lanciando sulle legioni ondate di arcieri a cavallo che, dopo aver tirato, si ritiravano logorando così il nemico e lasciandolo preda del caldo e della sete. Una volta indebolito il quadrato romano entrarono in scena i catafratti, gli antenati della cavalleria pesante medioevale. Per i romani non ci fu scampo. Alla fine della giornata il campo di Carre era coperto dei cadaveri dei legionari. Crasso tuttavia viveva ancora e aveva tutta l’intenzione di continuare la battaglia. Davanti alla testardaggine del generale la proverbiale disciplina delle legioni venne meno e Crasso fu obbligato a cavalcare fino al campo dei Parti per trattare. Qualcosa però andò storto e il triumviro venne assassinato. Si narra che, in sfregio al cadavere e come a rimarcare il fatto che conoscevano bene la sua nomea di uomo ricco e avido gli versarono oro liquido nella gola. L’umiliazione di Roma fu grande, diverse aquile vennero perdute e di fatto non ci furono più tentativi di conquistare la Persia. Circa 10.000 legionari sotto il comando del questore Cassio Longino divenuto poi famoso per l’assassinio di Cesare si ritirarono in Siria mentre altrettanti vennero fatti prigionieri e deportati ad Alexandria Margiana, l’odierna Merv, nel Turkmenistan, dove si dice sposarono donne locali. La leggenda vuole che alcuni di loro entrarono poi al servizio dei nomadi Xiognu assieme ai quali combatterono nella battaglia di Zhizhi contro i cinesi della dinastia Han dando vita alla leggenda della legione perduta e dei cinesi dagli occhi azzurri di Liqian.

Cosa resta di Carre nella moderna Harran? Poco o nulla ma a me è rimasta comunque la sensazione di camminare su uno dei luoghi della storia.

Pur avendo apprezzato il soggiorno nell’est della Turchia ci stanchiamo presto e dopo una visita al bazar dove acquistiamo per pochi spiccioli un sacchetto della spesa pieno di tabacco e dove un turco fastidioso prova ripetutamente a farci ripetere la professione di fede per convertirci all’islam, cosa che noi ovviamente non facciamo, decidiamo di lasciarci alle spalle quella città curda dal sapore arabo per dirigerci a est. Verso la Persia.

Il viaggio è lungo. Una dozzina abbonante di ore di autobus attraverso panorami spettacolari. Durante la notte riesco a dormire poco a causa di un ammortizzatore mal funzionate, del russare del mio vicino e della sete provocatami dalle olive nere acquistate alla stazione. All’alba attraversiamo il Tigri, il cui nome, nell’antico persiano significava “freccia” o “fiume delle acque rapide” per differenziarlo dal placido Eufrate. Lo vedo solo per pochi attimi da un ponte nei pressi di Diyarbakir ma, essendo molto suggestionabile dal potere dei nomi, lo ricordo ancora come se fosse ieri. Il viaggio prosegue per tutta la mattina. A mezzogiorno percorriamo le sponde innevate del lago di Van, grande come un mare. Qua e là lungo la via si scorgono i resti di chiese abbandonate. Un tempo queste zone erano abitate in prevalenza da armeni poi però arrivò la Grande guerra e con essa il primo genocidio del Novecento (in Europa, in Africa i tedeschi ci si erano già cimentati in quel della Namibia e i Belgi in quel del Congo). Dal 1914 l’impero ottomano, o quel che ne restava, era sceso in guerra al fianco degli imperi centrali e quindi contro la Russia zarista, sua storica rivale nei Balcani come nel Caucaso. Da subito le cose si misero male per gli ottomani che, male addestrati e mal equipaggiati per una guerra invernale, persero oltre 60,000 uomini nella sola battaglia di Sarikamish. Al comando delle truppe sconfitte era il ministro della guerra Enver Pasha, un militare snello con il baffo incerato all’austriaca e il fez sempre in testa. Membro dei “Giovani Turchi” aveva partecipato alla guerra di Libia contro l’Italia e a quelle balcaniche contro bulgari e greci. Sempre sconfitto aveva sviluppato, come prevedibile, una certa diffidenza nei confronti dei cristiani. Non sorprende quindi che, dopo Sarikamish, incolpò gli armeni per le sue sconfitte accusandoli di aver parteggiato attivamente per i russi. Che l’accusa fosse o meno veritiera il risultato fu terribile. Un insieme di esecuzioni sommarie, incendi, devastazioni di città e villaggi e una deportazione di massa in pieno inverno dalla quale non vennero risparmiate nemmeno le donne, i vecchi e i bambini. In queste “marce della morte” persero la vita tra i 600,000 e il milione di armeni e la cultura armena venne per sempre cancellata da quella parte di Anatolia dove quel popolo aveva vissuto per secoli. Il genocidio ebbe fine solo con la rivoluzione bolscevica e la fine delle ostilità tra russi e ottomani in seguito alla quale venne proclamata la prima repubblica d’Armenia, corrispondente a quella attuale, la cui popolazione era formata per metà da rifugiati e sopravvissuti ai massacri e alle deportazioni.

Enver Pasha, dal canto suo, confermò la sua tradizione di perdente quando, in seguito alla capitolazione ottomana e all’ascesa della nuova stella di Mustafa Kemal, fu costretto a lasciare la neonata Turchia per darsi a una nuova fallimentare impresa, quella del panturchismo. Inviato dai suoi nuovi padroni bolscevichi (che evidentemente in tempo di guerra civile non stavano a sindacare i curriculum dei generali che si offrivano a loro servizio) a sopprimere la rivolta dei Basmachi dell’Uzbekistan, Enver tradì i suoi protettori unendosi alla rivolta con lo scopo di unire i turchi dell’Asia centrale. I rossi non stettero a guardare. Nell’agosto del ’22 Enver e i pochi ufficiali rimastigli fedeli vennero circondati dalla cavalleria baschira comandata, fatto sta, dal generale sovietico armeno Hakob Melkumian. Ormai spacciato Enver Pasha scelse una morte eroica come dipinto e descritto nello straordinario fumetto di Hugo Pratt “La casa dorata di Samarcanda”. A cavallo, sciabola sguainata, si lanciò all’assalto dei baschiri che lo abbatterono tra gli “urrà” dei loro commilitoni armeni. Una piccola rivincita ma che, purtroppo, vale quanto le impiccagioni dei comandanti di Auschwitz. Possono regalare un brivido vendicativo ai sopravvissuti ma non possono restituire la vita alle centinaia di migliaia di innocenti che massacrati dal fanatismo nazionalista di Enver e dei suoi accoliti.

Vedere quelle chiese diroccate mi fa salire la rabbia. Rabbia non tanto per il genocidio in sé, per quello ormai non si può fare nulla, ma per la prolungata, continua e arrogante posizione tenuta del governo turco da Ataturk fino a Erdogan passando per le giunte militari e Ecevit. Una totale negazione della realtà storica che si spinge fino alla criminalizzazione dell’uso del termine “genocidio”. La posizione ufficiale di Ankara non è mai cambiata ed è indegna di un paese civile. Per i turchi, kemalisti o islamisti che siano, il genocidio semplicemente non è mai avvenuto. Per difendere l’indifendibile i regimi turchi hanno fatto lobby, minacciato rotture nei rapporti diplomatici e mobilitato la magistratura che nel corso dei decenni non ha esitato a condannare anche al carcere chiunque osasse negare la versione ufficiale del governo per il quale, è bene ripeterlo, non c’è stato alcun genocidio ma solo qualche sporadico caso di violenza tra comunità confessionali. Alcuni anni dopo il mio passaggio il premier Erdogan, trasformatosi vieppiù in un dittatore, ha avuto persino il coraggio di rilasciare, durante un simposio in cui attaccava il riconoscimento ufficiale del genocidio da parte della Francia, la seguente dichiarazione: “Il trasferimento delle gang armene e di chi le fiancheggiava mentre massacravano i musulmani è stata l’azione più ragionevole che si potesse attuare in quel periodo. Le porte dei nostri archivi sono aperte a chiunque voglia cercare la verità”. Inutile dire che è difficile trovare in questa dichiarazione anche una sola parola che non sia una bugia.

Quindi, in Turchia, meglio starsene zitti e ignorare il passato quando questo potesse rivelarsi scomodo come insegna il caso di Hrant Dink, giornalista di origine armena che, a dispetto di ripetute dichiarazioni di fedeltà alla sua nativa Turchia venne perseguitato dai tribunali di regime e, infine, ammazzato con tre colpi di pistola alla testa da un killer mai identificato.

Mentre mi lascio alle spalle quello splendido lago color cobalto tiro un sospiro e dedico qualche momento al ricordo di un mondo per sempre perduto e che mai avrò l’occasione di conoscere. Ma il viaggio prosegue e l’autobus continua a macinare chilometri nella vastità innevata dell’Anatolia orientale inerpicandosi per montagne sempre più alte costellate qua e la da castelli diroccati. Da qualche parte tra le cime impervie dovrebbe trovarsi, al di là delle quali ci attende, adagiata sui suoi millenari altopiani, la Persia.

COM'ERA L'ANATOLIA PRIMA DELL'ARRIVO DEI TURCHI?

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